18 maggio 2011

Brutta figura per l'Italia esclusa da Fondo Mondiale lotta all'Aids perchè non paga


Il nostro è l’unico paese a non aver versato negli ultimi due anni la quota che si era impegnata a versare all'organizzazione che investe in progetti contro Hiv, malaria e tubercolosi. Ennesima brutta figura all'estero. Interrogazione dei Radicali.

Sulla vicenda dell’esclusione dell’Italia dal Consiglio di Amministrazione del Fondo globale per la lotta contro l’Aids, malaria e tubercolosi, per non avere pagato per due anni gli importi su cui si era impegnata nel corso dei G8 di Genova e de L’Aquila, i deputati Radicali eletti nel Pd, prima firmataria Rita Bernardini, hanno depositato una interrogazione  per chiedere al Governo chiarimenti.


Di seguito il testo integrale dell’interrogaizone a risposta scritta:
Interrogazione urgente a risposta scritta
Al Presidente del Consiglio dei Minsitri
Al Ministro degli Esteri
Al Minsitro della Sanità

Da fonti di stampa e dall’Associazione nazionale Arcigay risulta che l’Italia è stata esclusa dal consiglio di amministrazione del Fondo globale per la lotta contro Aids, malaria e tubercolosi perché indietro con i pagamenti di ben due anni;
L’Italia era stata la promotrice del Fondo durante i lavori del G8 di Genova; il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel 2009 a L’Aquila, in occasione del G8 dichiarò che: “entro il prossimo mese verseremo 130 milioni di dollari a cui ne aggiungeremo altri 30″;
L’ Italia  ospiterà tra appena due mesi la IAS, uno dei più importanti eventi medico-scientifici dedicati alla lotta all'AIDS.
Degli oltre 40 paesi donatori (a cui vanno aggiunte associazioni come quelle che fanno capo a Bill Gates e a Bono Vox) l’Italia è l’unico a non aver ancora versato la quota del 2009”;
Per sapere:
- se tali notizie corrispondono al vero;
- quali notizie intende prendere il Governo per rispettare gli impegni presi;
- quale sarà l’atteggiamento del Governo italiano alla prossima riunione IAS;
- se non ritiene il Governo che tale comportamento metta in una cattiva luce il nostro paese sia rispetto agli impegni presi, sia rispetto alla necessità del nostro paese di contribuire in modo determinante alla lotta all’Aids in tutto il mondo;


Rita Bernardini
Matteo Mecacci
Marco Beltrandi
Maria Antonietta Farina Coscioni
Maurizio Turco
Elisabetta Zamparutti
Fonte :: certidiritti.it

16 ottobre: il giorno in cui la cometa Elenin distruggerà la Terra?


Sul web appassionati di ufologia e misteri parlano di catastrofe per l’avvicinamento dell’oggetto celeste. Ma la Nasa li smentisce
Ne hanno riparlato nei giorni scorso il sito Segnidelcielo e il blogEvidenzaaliena. I loro articoli sono rimblazati di profilo in profilo nei social network. Mentre qualcuno sul caso ha provveduto a pubblicare su YouTube un video che alimenta lo spettro di un pericolo incombente per il pianeta. Parliamo della cometaElenin, l’oggetto celeste scoperto il 10 dicembre scorso dall’astronomo russo Leonid Elenin, dal quale ha preso il nome, che si sta rapidamente avvicinando alla zona più interna del Sistema Solare e che sarà visibile dalla Terra a metà ottobre. Non sarà particolarmente brillante, anzi per riuscire a vederla ci vorrà almeno un buon binocolo, ma sulla cometa si rincorrono voci, inattendibili, sugli effetti negativi che il suo passaggio potrebbe provocare al nostro pianeta.
IL TERREMOTO IN GIAPPONE – Secondo alcuni ci sarebbe una relazione tra l’allineamento della cometa con sole e terra e il terremoto in Giappone:
E’ stato provato,dati scientifici alla mano, che quando la cometa Elenin si è allineata con il sole e la terra vi sono stati degli spostamenti dell’asse terrestre che hanno provocato terremoti violenti. Infatti il giorno 11 marzo 2011, durante il perfetto allineamento di Elenin con sole e la terra vi fu il terremoto di proporzioni spaventose registrato in Giappone, che voi tutti senz’altro ricorderete.Se tutto ciò vi sembra un’incredibile coincidenza,ebbene non lo è;infatti secondo gli studi effettuati sull’orbita di questa cometa si è potuto confermare che anche in occasione del terremoto che ha colpito il Cile il 27 febbraio 2010,i tre gli elementi spaziali ancora una volta erano perfettamente allineati.
1 GIUGNO 2001 – Qualche altro teme l’allineamento del prossimo primo giugno:
La cometa Elenin si avvicina sempre di più minacciosa verso la Terra, ma è escluso, fino a prova contraria, che essa possa impattare con il nostro pianeta. Sembrerebbe che questa cometa, proveniente dalla Nube di Oort, serbatoio di comete, sia stata proiettata verso il nostro sistema solare dalla forza di attrazione gravitazionale del famoso pianeta Nibiru. Gli scenari sono sempre più cupi e si può ricordare una serie di articoli su internet della Nasa, che ancora non vuole confermare o smentire nulla. Ciò che è sensazionale è che Google nasconde i dati delle mappe stellari, nelle immediate vicinanze della cometa, come già confermato da Agentia.org nella pubblicazione di materiale inerente appunto i dati della cometa Elenin, che sarebbe da ricollegare con Hercolubus, ovvero il pianeta Nibiru. I Russi hanno paura di un allineamento, che avverà tra meno di un mese, ovvero il 1 Giugno 2011, ma soprattutto del passaggio vicino alla Terra di Elenin del 17 Ottobre di quest’anno.
PAURE INFONDATE – Paure infondate, tranquillizzano le fonti ufficiali. Nel momento della scoperta la cometa si trovava allora alla distanza di 647 milioni di chilometri dalla Terra. Da allora ha percorso 373 milioni di chilometri e la sua distanza dalla Terra si è ridotta a 274 milioni di chilometri. Il suo percorso è anomalo rispetto a quello delle altre comete che provengono dall’esterno del Sistema Solare. La cometa Elenin raggiungerà il punto più vicino alla Terra il 16 ottobre, quando si troverà a 35 milioni di chilometri.
35 MILIONI DI KM – “Non incontrerà alcun corpo che possa perturbarne l’orbita nè avrà alcuna influenza sulla Terra”, ha detto Don Yeomans, delJet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa, rispondendo alle ipotesi che circolano sul Web. “La cometa non si avvicinerà più di 35 milioni di chilometri” ed è inoltre piuttosto piccola, ha aggiunto. “L’influenza che potrà avere sulla Terra è minuscola”. La cometa Elenin “non causerà alcuna distruzione sulla Terra”. Se il 16 ottobre ci sarà una ragione per osservare il cielo, sarà perché “questa piccola cometa relativamente giovane arrivata a visitare questa regione del Sistema Solare farà una breve visita per allontanarsi nuovamente e non avremo più sue notizie per migliaia di anni”. Oggetti come la piccola Elenin sono continuamente sorvegliati dal programma internazionaleSpaceguard Foundation, nel quale l’Italia lavora accanto al Jpl della Nasa con il dipartimento di Matematica dell’Università di Pisa.

Così ci tagliano la salute


di Paolo Biondani e Daniela Minerva
Il governo ha eliminato undicimila posti letto, decine di ospedali, migliaia tra medici e infermieri. Il risultato di questa illuminata politica? Code, sporcizia, meno assistenza agli anziani e grandi affari per le cliniche private


Fonte :: espresso.repubblica.it
Niente tagli alla sanità, giura solennemente il governo. Vero? No. A conti fatti, per la salute degli italiani, nel 2011 si spenderanno almeno 1.500 milioni di euro in meno. Che, in concreto, significano anziani e disabili lasciati senza assistenza, medici e infermieri che vanno in pensione e non vengono sostituiti, posti letto tagliati con la mannaia senza provvedere servizi sostituivi, pronto soccorso in crisi drammatica, carenza di farmaci. Qui diamo la specifica degli euro mancanti, ma ciò che conta è che i tagli così fatti, a pioggia e senza programmazione, non potevano che tradursi in collasso del Servizio sanitario nazionale. 

E la crisi è così grave che tocca allo stesso ministero della Salute dichiarare, senza mezzi termini, che oggi metà del Paese non è in grado di assicurare ai cittadini i livelli essenziali di assistenza. Così chi può permetterselo finisce col pagare di tasca sua (vedi tabella) servizi che dovrebbero essere un diritto, se solo non trovasse file d'attesa spaventose, quando non reparti integralmente spazzati via dalle esigenze di risparmio negli ospedali, caos e disservizi che, come ormai tutti sanno, sono l'autostrada per errori medici e malasanità. Perché non si sono tagliati gli sprechi, come tuona la propaganda del centrodestra, ma si è intrapresa una strada pericolosa, che porta dritto dritto alla débâcle del sistema, se non per intero, almeno nelle aree più deboli, che sono poi la maggioranza. Si può discutere quanto questo sia l'effetto di un disegno deliberato del governo che, di fronte a costi e complessità di continuare a garantire il servizio sanitario nazionale, sceglie di disinvestire e spingere il sistema verso un'americanizzazione più o meno consapevole: pochi e scadenti servizi per tutti e ingresso dell'imprenditoria privata per fare della salute degli italiani un mercato.
Ma è certo che se regioni come la Toscana, l'Emilia-Romagna o la Lombardia reggono all'urto, l'intero centro-sud è al collasso: da Roma in giù verranno tagliati entro l'anno ben 10 mila posti letto (vedi lo speciale interattivo). E non saranno sostituiti con residenze assistite per anziani o piccoli presidi sanitari di zona, come tutti concordano si sarebbe dovuto fare per ottimizzare le risorse senza penalizzare i malati: non c'è un euro per questa trasformazione. Anzi, nel Lazio si finiranno col cancellare quasi 2 mila posti che, sulla carta, dovevano andare proprio agli anziani e ai disabili gravi.

Ma se Roma e Napoli piangono, di certo Torino o Venezia non ridono: il Piemonte sta per tagliare 2.342 posti letto; e se persino una sanità d'eccellenza come quella veneta si riscopre in crisi, vuol dire che in Italia sta succedendo qualcosa di molto serio. Ecco una radiografia del pianeta sanità, centrata sui due attuali estremi: l'ex modello veneto e lo sfascio del Lazio.

Declino Veneto
E' l'inverno scorso. Una prestigiosa avvocata veneta, per giunta in ottimi rapporti con il governatore leghista Luca Zaia, viene ricoverata nell'ospedale di Verona Borgo Trento, lucente di un nuovissimo blocco di ben 34 sale operatorie. Subisce un intervento chirurgico. Quando inizia a svanire l'effetto dell'anestesia, ovviamente, sente dolore. Come rimedio, riceve solo tachipirina. Esasperata, chiede un farmaco più efficace. Il personale le risponde che non è previsto, perché "darlo a tutti costerebbe troppo". Ne nasce una spiacevole serie di liti in corsia, che l'avvocata riassume così: "Mi sembrava assurdo che uno dei più importanti ospedali del Nord risparmiasse sugli antidolorifici dopo un'operazione. Ho protestato che, se era un problema di prezzo, potevo pagarmelo io. Per calmarmi mi hanno fatto una puntura. Però sono rimasta senza terapia antibiotica. Il giorno dopo avevo 38 e mezzo di febbre. Eppure, mi sono sentita dire che sarei dovuta tornare a casa, perché il mio letto era già destinato a un altro". Furibonda, la paziente minaccia denunce. Diventa un caso. Medici e infermieri si chiedono chi sia. Scoprono che non solo è avvocata, ma pure amica del direttore sanitario e addirittura del presidente della Regione. E corrono a scusarsi con queste parole: "Non ci rovini, cerchi di capire la nostra situazione: la sanità pubblica è allo sbando, ormai siamo costretti a risparmiare su tutto"

A Roma il primo orto biologico a distanza

pomodori

A Roma arriva il primo orto biologico a distanza

A Roma si sperimenta una nuova idea di legame tra città e campagna con l'orto biologico a distanza. L'iniziativa di filiera corta arriva dall'Associazione Italiana per l'Agricoltura biologica e si propone come una valida e desiderata alternativa alla distribuzione organizzata. Il merito va soprattutto ai cittadini che hanno deciso di coltivare un orto, una tendenza che si sta ampliando e differenziando nel tempo.

di Daniela Sciarra - 18 Maggio 2011


Arriva a Roma il primo orto biologico a distanza
Non si tratta di un ennesimo gioco virtuale alla farmville, ma di un orto vero e proprio, composto dalla terra, semi e piante che danno frutti e ortaggi veri. Da oggi i romani possono prendere in affitto un appezzamento di terra, scegliere on-line le piante da mettere a dimora e affidarne la cura ad agricoltori esperti che seguiranno i criteri della produzione biologica, oltre che la stagionalità delle produzioni.
L’orto biologico a distanza, garantito dal marchio Garanzia AIAB, nasce da una collaborazione tra l’Aiab (Associazione Italiana per l'Agricoltura Biologica) e l’azienda Le Spinose e coprirà la zona di Roma e dell’agro romano. Così ora, collegandosi al portale Le verdure del mio orto, anche i romani possono divertirsi a creare il proprio orto a distanza. Gli appezzamenti di terreno sono disponibili in dimensioni diverse per adattarsi alle esigenze di tutti: si parte da 16 euro per un orto di 30 mq e una fornitura settimanale di 3-4 kg di orto-frutta per arrivare a 34 euro per 11-12 kg di verdure. Per quantitativi superiori (ristoranti, gruppi di acquisto) il prezzo è su richiesta.
“Siamo molto soddisfatti di poter inaugurare questa iniziativa difiliera corta che non solo crea un rapporto diretto tra produttore e consumatore e rappresenta l’ennesimo canale per fruire dei prodotti biologici in garanzia AIAB – commenta Andrea Ferrante, presidente nazionale dell’Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica (AIAB) - ma si inserisce nell’ambito di una tendenza sempre più diffusa: la ‘rivincita’ della campagna sulla città. Mentre infatti le aree urbane e la crescente cementificazione del territorio sottraggono spazio alla campagna, la campagna torna nelle città.
Merito del 25% degli italiani che hanno deciso di coltivare un orto, per quanto di dimensioni limitate, nel giardino di casa, sul terrazzo, o in spazi di verde pubblico messi a disposizione dai Comuni. Una tendenza che si sta ampliando e differenziando sempre più e alla quale contribuiscono ormai in modo importante che gli orti a distanza” .
L’orto biologico a distanza dimostra come il settore del biologico sia dinamico, innovativo e in grado di sperimentare nuove strategie per rispondere alle diverse esigenze. Al contrario della grande distribuzione organizzata che necessita di tempi più lunghi per rinnovarsi e avvicinarsi alle persone. Non è infatti un caso che i consumatori di biologico si stiano orientando sempre più verso i canali della vendita diretta, dell’e-commerce e dei gruppi di acquisto solidale.

La Cina mette al bando il gelsomino per il timore di una rivoluzione


Se un fiore può fare paura a un regime. Le autorità cinesi hanno bandito il gelsomino da Internet in tutte le sue forme, dalla semplice parola fino a un video del presidente cinese che cantava una antica canzone dedicata alla pianta. Perché?
E' tutta colpa dei tunisini. Da quando, lo scorso gennaio, il popolo della Tunisia scese nelle piazze per cacciare il presidente Zine El Abidine Ben Ali, la loro rivolta venne battezzata "la rivoluzione del gelsomino". Quasi in contemporanea a quanto succedeva in Nord Africa, infatti, qualcuno in Cina cominciò ad invocare anche lì una rivoluzione del gelsomino. Era febbraio e sulla Rete cinese cominciò a circolare la richiesta di una rivoluzione al gelsomino cinese. La risposta delle autorità fu immediata: cominciò una autentica caccia al gelsomino. Ma perché i tunisini scelsero proprio questa pianta come simbolo della rivoluzione?
LE RIVOLUZIONI DEI FIORI - Da sempre, il fiore è simbolo della purezza. E da sempre, le rivoluzioni sono spesso associate a un fiore. Dalla famosa formula degli hippie negli anni sessanta che invitavano a "mettersi un fiore nei capelli" fino a "mettere un fiore nei vostri cannoni", il fiore è stato associato alla ribellione. In Portogallo nel 1974 ci sarebbe stata la rivoluzione dei garofani; nella Georgia ex sovietica quella delle rose mentre in Kirghizistan nel 2005 quella dei tulipani.
SENSUALITA’ E PUREZZA - Spesso si sceglie il fiore che è maggiormente presente in quello specifico paese. Il gelsomino da sempre è considerato "il fiore dei fiori", amato già dagli antichi egizi ai tempi dei faraoni. Il gelsomino esprime amabilità e sensualità ed è presente in due tipi, quello bianco e quello giallo. Il primo è simbolo della timidezza, da regalare quando non ci si vuole esporre troppo, simbolo comunque di affetto. Quello giallo invece rappresenta gentilezza, candore, eleganza e nobilita. Tutti simboli perfetti per una rivolta contro il grigiore del potere dittatoriale. In più il gelsomino è il fiore tipico della Tunisia: lo si vede infatti molto spesso nelle campagne turistiche promozionali.
A inventare lo slogan "rivoluzione del gelsomino" fu un giornalista tunisino, Zied El Hani, noto per la sua lunga lotta al regime. Il 13 gennaio mise online sul suo blog un testo intitolato "rivoluzione del gelsomino".
CINA - I dirigenti del partito comunista al potere in Cina appena hanno collegato il messaggio dell'ignoto internata a proposito dei gelsomini con la rivoluzione tunisina, si sono immediatamente allarmati e mobilitati- Sia mai che scoppi una rivoluzione anche nel Paese della rivoluzione. Di fatto in Cina a diversi mesi dalla rivoluzione tunisina non si registra alcun atto di ribellione, se non atti di repressione messi in atto dal regime di propria iniziativa, come l'arresto dell'artista Ai Weiwei.
CENSURA ONLINE - La parola gelsomino intanto è proibita su Internet: se provate a scriverla, non ci riuscirete. Spariscono anche ogni tipo di video dove il gelsomino gioca una parte. L'esempio più clamoroso è quello relativo all'attuale segretario del partito comunista cinese, Hu Jintao, di cui esisteva un video che lo filmava intento a cantare la canzone popolare cinese "Mo Li Hua", dedicata appunto al gelsomino. Si tratta di un canto risalente alla dinastia Qing che dimostra quanto il gelsomino faccia parte della storia e della cultura cinese.
Quelli infatti che soffrono maggiormente le conseguenze di questo bando del gelsomino sono i contadini della regione del Daxing, un distretto rurale non lontano dalla capitale Pechino. Da quando la polizia ha ordinato la messa al bando della vendita del fiore, i prezzi sono crollati e loro rischiano la crisi totale. Le autorità hanno anche organizzato una riunione con i principali venditori di fiori per avvertirli di non osare più vendere gelsomini fino a nuovo ordine. A loro è stato spiegato in modo vago e impreciso che fare ciò avrebbe potuto dare vita a una sorte di ribellione, ma la maggior parte dei cinesi si sta ancora domandando perché non posano più vendere o comprare piante di uno dei loro fiori più amati.

Censurato referendum sull'acqua

La RAI “censura” il referendum sull'acqua

La RAI “censura” il referendum sull'acqua

Mariachiara Alberton, esperta in diritto ambientale, viene invitata a Radio RAI per parlare del referendum. Ma una circolare dell'azienda blocca la trasmissione all'ultimo minuto e vieta di trattare l'argomento fino al 13 giugno

La segnalazione arriva via email e inoltra un messaggio trasmesso alla Rete dalla dott.ssa Mariachiara Alberton, giurista e ricercatrice in diritto ambientale presso l'EURAC, istituto di ricerca di Bolzano.
Nel suo messaggio, la studiosa - che nonostante il cognome “nostrano” è originaria di Torino e vive sempre a Bolzano - riferisce di un episodio accaduto giovedì scorso: invitata da Radio RAI a parlare del referendum sulla privatizzazione dell'acqua, la dott.ssa Alberton è stata stoppata all'ultimo momento, e la trasmissione sospesa, a seguito di un'improvvisa circolare della Tv di Stato “che vieta a qualunque programma RAI di toccare l'argomento fino a giugno”.
Questa la segnalazione pervenuta alla nostra mail:

“Ciao a tutti,

confermo la necessità di questo passaparola, aggiungendo che si tratta di informazione per ri-affermare i diritti costituzionalmente garantiti.
Il 
dramma è che sembra la maggior parte della popolazione non sia consapevole di quanto sta avvenendo. Quello che Vi porto è solo un piccolo esempio.
Sono una ricercatrice, mi occupo di diritto ambientale e di risorse idriche. 
Ieri mattina dovevo intervenire ad un programma RADIO RAI (programmato ormai da due settimane) per parlare del referendum sulla privatizzazione dell'acqua e chiarirne meglio le implicazioni giuridiche. 

E' arrivata una circolare interna RAI alle 8 di ieri mattina che ha vietato con effetti immediati a qualunque programma della RAI di toccare l'argomento 
fino a giugno (12-13 giugno quando si terrà il referendum), quindi il programma è saltato e il mio intervento pure. 
 

Questo è un piccolo esempio delle modalità con cui "il servizio pubblico" viene messo a tacere e di come si boicotti pesantemente la possibilità dei cittadini di essere informati e di intervenire (secondo gli strumenti garantiti dalla Costituzione) nella gestione della res publica.
Di fronte a questa ennesima manifestazione di un potere esecutivo assoluto che calpesta non solo quotidianamente le altre istituzioni, ma anche il popolo italiano di cui invece si fregia di esser voce ed espressione, occorre riappropriarci della nostra voce prima di perderla definitivamente. 
 
Il referendum è evidentemente anche questo! 
  


Mariachiara Alberton”

La segnalazione della ricercatrice - che Bassanonet rende ulteriormente pubblica - è un tassello che si aggiunge a un quadro generale che in tema di informazione pubblica sui referendum permane caotico.
E' di oggi la notizia che la Rai, da stasera, manderà in onda degli spot sui referendum, ovvero degli spot di spiegazione “su cosa si andrà a votare e come farlo”.
La circolare interna della RAI, inoltre, è in contraddizione con il Regolamento appena approvato dalla Commissione di Vigilanza sulla RAI che stabilisce l'obbligo di “trasmettere tribune televisive e messaggi autogestiti sui referendum a partire dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione dei decreti presidenziali di indizione dei referendum sulla Gazzetta Ufficiale”, che risale allo scorso 4 aprile
Vale la pena ricordare che i quesiti referendari passano se viene raggiunto il quorum, e cioè se si reca alle urne il 50% più uno degli aventi diritto al voto.
Per legittimare gli esiti della consultazione è necessario quindi che il 12 e 13 giugno prossimi vadano a votare almeno 25 milioni di persone, per esprimere il proprio voto sulla privatizzazione dell'acqua (due quesiti distinti), sul nucleare e sul legittimo impedimento.
Secondo gli ultimi sondaggi, i prossimi referendum e i loro quesiti sono conosciuti al momento da appena il 20% degli italiani.

Sete di profitto - Le banche mettono le mani sull’acqua

acqua soldi



"Chiare, fresche, dolci acque. E redditizie"


Il mondo della finanza, istituti di credito in testa, non si lascerà sfuggire l’occasione d’oro offerta dal governo, che ha dato vita ad una privatizzazione forzata del comparto idrico. Che dovrà concludersi entro il 2015.


Chiare, fresche, dolci acque. E redditizie. Senza fare troppo rumore, le banche stanno mettendo le mani su una delle risorse vitali del Paese (e del mondo intero). Dopo aver acquisito piccole quote nelle principali società idriche del settore, ora si avvicina il momento di fare il grande salto. Restano due ostacoli da superare: le tariffe (troppo basse) e il referendum per l’acqua pubblica.

Poi sul resto ci si può mettere d’accordo. La svolta è arrivata con l’operazione San Giacomo, nuovo polo dell’acqua controllato da Iren (frutto della fusione tra la ligure-piemontese Iride e l’emiliana Enìa) in partnership con F2i, il fondo di private equity guidato da Vito Gamberale e partecipato al 55% da Intesa SanPaolo, Unicredit, Merryl Lynch e sette fondazioni bancarie. F2i nella nuova società – che ha inglobato la genovese Mediterranea delle Acque – avrà una quota del 35%, con l’opzione di salire al 40%. Altro socio di rilievo con l’8% è la Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta partecipata al 30% dalle stesse fondazioni.

Manovre che segnalano gli appetiti del mondo creditizio verso un boccone troppo ghiotto per farselo sfuggire, specie in periodi di vacche magre. E il ministro per le Politiche europee, Andrea Ronchi, lo ha offerto su un piatto d’argento con un decreto del 2009, poi convertito in legge, avviando una vera e propria privatizzazione forzata del comparto. Infatti entro il 2015 i comuni dovranno scendere al 30% nelle società quotate in Borsa (al 40% entro giugno 2013), mentre nelle aziende a totale capitale pubblico l’azionista privato dovrà salire al 40% entro quest’anno. In caso contrario scatta l’obbligo di gara per l’affidamento del servizio.

Una rivoluzione per il settore, che riverserà in Borsa partecipazioni per oltre due miliardi di euro nei prossimi tre anni e mezzo, rimettendo in gioco gli attuali assetti proprietari. Sempre che il referendum non rovini la festa.


Il cappio dei debiti
Intanto sui pacchetti in vendita hanno messo gli occhi tutti: banche, gruppi industriali (in primis Caltagirone, già azionista di rilievo di Acea), fondi di investimento, fondi pensione, fondazioni bancarie, ma anche organismi pubblici come Cassa depositi e prestiti e veicoli come F2i. I Comuni dal canto loro potrebbero cogliere l’occasione per dare un po’ di ossigeno alle casse, in sofferenza per il taglio ai trasferimenti, cedendo quote anche superiori alla soglia imposta per legge.

Le banche tuttavia sono avvantaggiate sui competitor grazie agli intrecci finanziari già in essere, che legano a doppio filo le sorti del settore agli interessi degli istituti. Le sole società quotate hanno debiti bancari per 6 miliardi di euro, su 9 miliardi di capitalizzazione, che fruttano ogni anno dai 240 ai 360 milioni di interessi (prelevati direttamente dalle bollette dei cittadini). Una spada di Damocle che peserà non poco nel processo di privatizzazione, quando cioè si tratterà di collocare le partecipazioni sul mercato. In prima fila svetta Intesa SanPaolo, seguita nell’ordine da Banco Popolare, Unicredit, Dexia Crediop, Mps e Bnp (che controlla Bnl): sono loro che tengono le briglie del debito nel comparto idrico, ben in grado di influenzare le scelte strategiche delle aziende clienti. E saranno loro, con tutta probabilità, a contendersi la torta.

«Sul piatto ci sono soprattutto le imprese del Nord, più ricche ed efficienti», continua Lembo, segretario nazionale del Comitato italiano per il Contratto mondiale dell’acqua. Inoltre, continua Lembo, «mentre in regioni come la Toscana, l’Umbria e l’Emilia le tariffe sono già aumentate, in Lombardia e Veneto ci sono margini molto più ampi. Ma per ora le banche mantengono uno stretto riserbo sull’argomento, visti i nostri tentativi (andati a vuoto) di avere qualche chiarimento».

Del resto i rischi sono bassi e il rendimento è garantito per legge. Già nel 2006, infatti, la normativa stabilisce una remunerazione minima del 7% sul capitale investito, da incorporare nelle tariffe.

«Ma si tratta appunto di una soglia minima - continua Lembo - destinata con tutta probabilità a salire, visto che in Italia la tariffa media è circa la metà di quelle europee. La stessa remunerazione viene garantita ai fondi pubblici, ad esempio quelli erogati da Cassa Depositi e Prestiti, quando i tassi applicati da quest’ultima agli enti locali si attestano oggi intorno al 3%. Una norma iniqua, di cui abbiamo chiesto l’abrogazione per via referendaria». Nel 2009 F2i ha assicurato agli investitori un rendimento medio del 15%, al di sotto del quale difficilmente scenderà in futuro se vuole continuare a rastrellare capitali.

A pesare saranno anche gli interventi per chiudere le falle di una rete non proprio in ottimo stato – si stimano non meno di 50 miliardi di euro nei prossimi 15 anni – che aumenteranno i debiti delle multiutility e faranno lievitare i prezzi. È questo un nodo cruciale dei processi in atto, come spiega Andrea Gilardoni, docente di Economia e gestione delle utilities all’università Bocconi di Milano: «Il settore idrico è oggetto di grande attenzione, ma richiede grossi investimenti, che la pubblica amministrazione non è più in grado di sostenere. Il fabbisogno è di gran lunga superiore alle risorse disponibili e non resta che il ricorso alla finanza privata per riparare le reti e garantire una gestione efficiente delle varie fasi, dal trasporto alla depurazione, dal riciclo al trattamento fognario. Le nuove normative europee, d’altro canto, impongono parametri qualitativi dai quali non possiamo prescindere».


Il nodo tariffe
Le tariffe saranno, dunque, il vero spartiacque di un ingresso in forze della finanza privata. «Banche e fondi intervengono solo se hanno ritorni adeguati - conferma Gilardoni - e dunque servono prima regole chiare e trasparenti, come è già avvenuto nel settore elettrico, a partire dalle tariffe. Le banche finora hanno mostrato prudenza, proprio a causa dell’incertezza normativa e del malfunzionamento del sistema degli Ato. Per contro la natura del servizio idrico potrebbe garantire rendimenti costanti che, soprattutto in periodi di crisi, costituiscono un asset importante. Si tratta insomma di investimenti con rischi contenuti, meno sensibili ai cicli dei mercati finanziari».

È d’accordo Giampaolo Attanasio, associate partner di Kpmg specializzato nel settore energy e utility: «L’interesse degli investitori per il comparto è legato al buon rapporto tra rischio e rendimento e a una remunerazione comunque superiore a quella dei titoli pubblici. Tuttavia la mancanza di chiarezza normativa e il basso livello delle tariffe ostacolano l’afflusso di capitali privati. Molti preferiscono aspettare, in attesa di una netta separazione tra patrimonio e gestione del servizio e di un maggiore consenso sugli aumenti tariffari. In ogni caso un eventuale ingresso delle banche non avverrà direttamente, ma attraverso fondi infrastrutturali come F2i, che potrebbero attrarre gli investimenti mettendo in gioco una reale competenza nel settore. Per il resto molto dipenderà dall’esito della crisi, per nulla scontato. Quando le quote dei Comuni verranno messe sul mercato potremmo trovarci di fronte ad un’economia in ripresa oppure ad uno scenario giapponese, di stasi: situazioni molto acquirenti».



Intesa Sanpaolo sembra aver fiutato prima degli altri l'affare
Dai documenti contabili risulta, infatti, la banca di gran lunga più esposta sul settore idrico. Azionista al 10% di Acque Potabili (provincia di Palermo), al 3,6% di Acegas e al 3% di Iren, compare tra i grandi finanziatori di tutte le multiutility quotate in Borsa.

Acegas, Acque Potabili, Acsm Agam, Hera, Iride ed Enìa registrano debiti a breve e medio-lungo termine intorno ai 420 milioni di euro verso Intesa, oltre il doppio dei volumi di Unicredit. Acea e A2A non forniscono il dettaglio dei creditori, ma sappiamo che la banca guidata da Corrado Passera intrattiene rapporti privilegiati con entrambi. Nel marzo 2010 essa garantì il collocamento di un prestito obbligazionario Acea pari a 500 milioni di euro, insieme a Bnp, Mediobanca, Mps e Unicredit, mentre nove mesi dopo compare tra i collocatori di obbligazioni A2A per 1 miliardo di euro, insieme a Bnp, Mediobanca, Banco Bilbao e Calyon. Nei prospetti di entrambe le aziende, depositati alla Borsa del Lussemburgo (paradiso fiscale nel quale è avvenuta l’emissione), si precisa che gli istituti “e le rispettive affiliate sono impegnati, e potrebbero esserlo in futuro, in attività di banca d’investimento, banca commerciale (inclusa l’erogazione di prestiti agevolati) e altre transazioni correlate con le imprese emettitrici e le proprie affiliate e potrebbero prestare servizi per esse”.

Intesa è anche uno dei grandi investitori di F2i, il fondo entrato prepotentemente nel mercato idrico con l’operazione San Giacomo-Mediterranea delle Acque, ma non disdegna interventi di minor cabotaggio in diversi Ato. Nel 2009 ha partecipato alla concessione di un prestito in pool alla società Multiservizi, che ha in appalto il servizio idrico dell’Ato di Ancona per la realizzazione degli investimenti previsti dal Piano d’Ambito, e ha acquisito un mandato per un finanziamento all’Ato di Novara, in attesa del quale ha concesso un prestito ponte in pool con altri istituti. Nel 2008 si segnala la prosecuzione dell’attività di advisory verso la Gori Spa, concessionaria per il servizio idrico dell’Ato Sarnese Vesuviano. Nelle relazioni di bilancio dei due anni precedenti emergono rapporti con l’allora Smat di Torino, a garanzia di finanziamenti della Banca Europea per gli Investimenti, e con la Telete per progetti relativi al ciclo idrico dell’Ato 1 Lazio Nord-Viterbo e dell’Ato 3 Umbria, nonché un’operatività “di particolare rilievo” con le principali aziende del nord Italia, quali Aem Milano, Hera, Asm Brescia e Iride.

Travaglio: “Raccontare fatti? E’ più divertente che leccare culi da mattina a sera”


Travaglio: “Raccontare fatti? E’ più divertente che leccare culi da mattina a sera”
Dalla scomparsa dei fatti alla loro ricomparsa. Perché raccontarli “è più divertente che leccare culi dalla mattina alla sera”. Marco Travaglio ritorna di fronte al pubblico del Salone internazionale del Libro a Torino, la sua città, per parlare di giornalismo e politica. All’ultimo giorno della fiera e a spoglio elettorale in corso, il vicedirettore de il Fatto ha riempito ieri pomeriggio la Sala gialla, mentre fuori alcuni espositori già smontavano.

Travaglio inizia col caso del presidente del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn dopo l’arresto per violenza sessuale: “Il processo comincia con una domanda preliminare: ‘Si definisce colpevole o innocente?’. Se si dichiara colpevole se la cava con qualche anno di carcere, se si dichiara innocente va a processo e se viene condannato dovrà scontare più anni perché negli Stati Uniti mentire ai giudici è reato, in Italia no. Se lo conoscessi gli direi di trasferirsi qui. I fatti assumono un’altra piega, la sua violenza diventerebbe un dettaglio ininfluente”. In Italia, dopo i primi tempi dello scandalo del “bunga bunga”, si è cominciato a parlare altro: “Questi fatti sono stati messi da parte e si è cominciato a confondere le idee”. Una cosa resta chiara nell’attesa dell’esito giudiziario su B.: “C’è già stato un abuso di potere”.

Ora Strauss-Kahn è stato arrestato e Travaglio chiede: “Sono giustizialisti gli americani e i francesi? Sono normali. Se uno ha uno scandalo prima lo risolve, poi, se ne esce, torna”. “Berluskahn parlerebbe subito di manette facili, poliziotti rossi annidati nella polizia di New York, celeberrima per le sue deviazioni bolsceviche, della cameriera mandata apposta vestita da cameriera per incastrarlo. Poi si comincerebbe a sottilizzare, si ritoccherebbe il codice penale…”. In questi casi in Italia “Embe’” è la reazione più ricorrente, equivalente del “Qui rubiamo tutti” diBettino Craxi, dice per poi chiedersi: “Perché mai dovremmo accettare di essere tutti dei ladri e dei maiali solo perché B. lo è?”. E non sono solo i politici a parlare così, ma anche gli intellettuali: “Pensate a come si è piegata la loro funzione, un servo del potere che dà sempre ragione al capo coprendosi di ridicolo”. E cita Piero Ostellino, Giuliano Ferrara, Alessandro Sallusti e Maurizio Belpietro, tra i tanti.

Poi passa a criticare la sinistra, per la quale i fatti di B. scompaiono sempre: “Da vent’anni replica che non bisogna rinfacciare a Berlusconi i suoi processi e i suoi reati”. Un piccolo elogio aGiuliano Pisapia, candidato sindaco a Milano: “Se uno sa di essere innocente rinuncia ad amnistia e prescrizione. Berlusconi invece le ha prese tutte, due volte una e sei volte l’altra”. E inoltre B. non si pone il problema di rinfacciare ai nemici politici scandali creati ad hoc: Telekom Serbia, dossier Mitrokhin, le false accuse ad Antonio Di Pietro negli anni Novanta. Il presidente Giorgio Napolitano ha recentemente ricordato che all’estero i politici si dimettono per molto meno? “Gli altri giornali l’hanno nascosto. Noi abbiamo fatto un elenchino parlando anche della prescrizione di Massimo D’Alema. Il suo ufficio stampa ci ha scritto che è falso, noi abbiamo controllato. I fatti sono accertati, ma c’è stata la prescrizione. Lo hanno scritto ‘Incredibile. Il Fatto non sa leggere gli atti giudiziari’ e noi abbiamo replicato ‘Incredibile. L’ufficio stampa di D’Alema non sa leggere’”.

E poi continua a parlare del Fatto, della curiosità suscitata presso i giornalisti stranieri, delle telefonate dei colleghi per passare notizie censurate e altro. “Altri giornali si chiedono perché noi abbiamo pubblicato certe notizie, che cosa ci sia dietro. Noi parliamo degli scandali B., D’Alema, anche di Di Pietro e di Nichi Vendola. Ci ispira la correttezza e il piacere di raccontare le cose. Fare il giornalista non è coraggioso, è divertente, più divertente che leccare culi dalla mattina alla sera”.


C’è un filo d’autolesionismo, nelle ultime scelte di Roberto 
Maroni, leghista doc e ministro dell’Interno. Sdegnato per le violenze 
degli studenti contro la polizia durante la manifestazione del 14 
dicembre, indignato per le scarcerazioni dei ragazzi fermati quel 
giorno, oggi chiede che i violenti siano tenuti in carcere. A dargli 
retta, si otterrebbe un risultato curioso: in carcere dovrebbe finire, 
e restarci, lui stesso. Per via delle violenze esercitate nei 
confronti dei poliziotti un pomeriggio del 1996. 

   ERA IL 18 SETTEMBRE e Bobo Maroni era davanti alla sede della Lega 
Nord in via Belle-rio, a Milano. Alle 7 del mattino la polizia si era 
presentata a perquisire, a Verona, uffici e abitazioni di Corinto 
Marchini, il capo delle “camicie verdi”, e di due leghisti a lui 
vicini, Enzo Flego e Sandrino Speri. Gli agenti erano stati mandati da 
Guido Papalia, procuratore della   Repubblica di Verona, che stava 
indagando sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere 
“un’organizzazione paramilitare tesa ad attentare all’unità dello 
Stato”. Marchini aveva un ufficio anche in via Belle-rio, a Milano. 
Così due pattuglie della Digos veronese arrivano alle 11 alla sede 
della Lega e tentano di entrare. Invano: i militanti leghisti 
impediscono l’accesso. Tornano il pomeriggio, con un provvedimento 
integrativo di perquisizione. Riescono a fatica a entrare 
nell’androne, ma lì sono fermati da un cordone   di leghisti, tra cui 
Maroni, che impedisce l’accesso alla scala. Spintoni, parapiglia. Alla 
fine i poliziotti sfondano e riescono a salire. Ma Bobo, che in 
gioventù era stato militante di Democrazia proletaria, non de-morde: 
“Il primo vero e proprio episodio di violenza”, annotano le cronache, 
“è compiuto da Maroni che tenta di impedire la salita della rampa di 
scale, bloccando per le gambe gli ispettori Mastrostefano e Amadu”. I 
due si divincolano e salgono, con tutti i loro colleghi. Ma la squadra 
Maroni non si ferma: insegue gli agenti, li copre d’insulti, tenta di 
bloccarli con la forza. I cori ingiuriosi sono diretti da Mario 
Borghezio   , mentre “numerosi atti di aggressione fisica e verbale 
nei confronti dei pubblici ufficiali” sono compiuti da Maroni, ma 
anche da Umberto Bossi e Roberto Calderoli: “Episodi tutti 
documentati   dai filmati televisivi”. Con fatica, gli agenti arrivano 
davanti all’ufficio di Marchini che devono perquisire. Lo trovano 
sbarrato. Sulla porta, un biglietto scritto a macchina: “Segreteria 
politica - Ufficio on.le Maroni”. La porta è sfondata. “Operazione che 
tuttavia era ostacolata violentemente” da Maroni, Bossi, Borghezio, 
Calderoli e altri, “che aggredivano principalmente il dottor Pallauro 
e l’ispettore Amadu, il quale veniva stretto fra gli imputati Maroni, 
Martinelli e Bossi, che lo afferrava dal davanti, mentre il Martinelli 
lo prendeva   alla spalle”. La guerriglia finisce con un malore   : 
Maroni “viene disteso a terra dall’agente Nuvolone, per poi essere 
avviato al pronto soccorso, ove gli venivano riscontrate lesioni per 
le quali sporgeva querela”. 

   FIN QUI la cronaca delle violenze contro la polizia del 18 
settembre 1996. Segue inchiesta e processo penale per resistenza a 
pubblico ufficiale. Il deputato Maroni nel processo mente: sostiene, 
come un black-bloc qualunque, di essere stato aggredito dai 
poliziotti. Ma in dibattimento viene dimostrata “la non veridicità 
dell’assunto del Maroni”, poiché è “documentato che nell’ascesa della 
rampa delle scale, trovandosi a terra, e non per le percosse 
ricevute, tratteneva con la forza gli operanti afferrando la caviglia 
dell’ispettore Mastrostefano e poi le gambe dell’ispettore Amadu”. E 
lo svenimento finale? Per i giudici è provato che Maroni “era caduto 
in terra per un improvviso malore, nella fase finale dell’accesso 
degli operanti nella stanza da perquisire, circostanza attendibilmente 
confermata dal teste Nuvoloni della Polizia, che lo aveva soccorso, e 
forse colpito anche involontariamente, in tale posizione, nella ressa 
creatasi sul luogo, o già raggiunto, presumibilmente, da spinte nel 
corso della vicenda che vedeva un accalcarsi incontrollato di persone, 
compresi giornalisti e simpatizzanti della Lega Nord”. 

   DRAMMATICO ed esilarante insieme. Comunque, “la resistenza” di 
Maroni e degli altri leghisti “non risultava motivata da valori etici, 
mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in 
presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto ad opera dei 
pubblici ufficiali”, i quali “erano comunque tenuti a portare a 
compimento l’ordine loro impartito”. Così le azioni violente compiute 
da Bobo sono state ritenute, si legge nella sentenza della Cassazione, 
“inspiegabili episodi di resistenza attiva, e proprio per questo del 
tutto ingiustificabili”. Condanna in primo grado a 8 mesi. In appello 
a 4 mesi e 20 giorni, perché nel frattempo era stato abrogato il reato 
di oltraggio. La Cassazione conferma, commutando la condanna in una 
pena pecuniaria di 5.320 euro. Forse Bobo, prima di pontificare sugli 
scontri di Roma, dovrebbe rileggere gli atti processuali e ripensare 
ai suoi comportamenti guerriglieri. 
  LE VIOLENZE E CHI NON ASCOLTA: IL DIBATTITO SUL  FATTOQUOTIDIANO.IT 

   Ad “Annozero” il ministro La Russa ha attaccato pesantemente le 
manifestazioni di Roma. E in studio gli studenti non hanno preso le 
distanze dalle violenze. Cosa ne pensate? Sul nostro sito già più di 
3000 commenti. Scrive Sergio: “Sono stati commessi atti incresciosi ma 
proprio per questo un governo capace e intenzionato a governare 
dovrebbe ascoltare con molta attenzione”. 
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